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Subject: Libertà d’opinione o di stampa...

2021-01-14 17:47:32
Apro qui un thread (ammazza come sono inglese) per una cosa che è successa sull’online di un quotidiano cremonese. Ieri (se non ricordo male) avevo messo il link del prefetto di Cremona che dichiarava di rafforzare i controlli di Gdf e NAS per quei ristoratori che si sarebbero attivati secondo la “disobbedienza civile” per aprire i locali nonostante i divieti correnti.
Fin qui tutto bene, il problema è che l’online è stato inondato di accuse o insulti anche verso il prefetto per questa scelta di sostenere i controlli in maniera rafforzata.
Fin qui tutto bene (parte 2), il fatto è che oggi la redazione dell’online esprime il suo diritto di censura su commenti astiosi o insultanti.
Da qui tutto male, infatti sono stati accusati di poter/voler decidere commenti in linea o meno con direttive più o meno specifiche, allineandosi a quelle scelte dove chi conta di più può dire (o non far dire) di più. Oggettivamente sono perplesso, una persona che si prende carico di fare/imporre determinate scelte ai cittadini dovrebbe saper anche confrontarsi con loro, viceversa l’insulto gratuito o personale (cioè non rivolto alla scelta effettuata, in questo caso, dal massimo rappresentante dello stato in provincia ma alla sua persona) dovrebbe essere tacciato.
Dal mio punto di vista l’errore è stato pubblicare quella intervista, (come vi ho sempre spiegato la libertà di stampa vera non esiste in nessuna parte del mondo) questo perché apriva il varco a scelte secondo me tutt’altro che semplici da attuare visto il periodo, in secondo luogo - e qui tiro in ballo la redazione e l’editore - dare ad un contenuto la forma di censura diretta rappresenta un ossimoro per un organo di informazione.
Cosa mi fa pensare? Che la rete sia sempre meno uno strumento di confronto ma piuttosto di attacco verso chi o chi per esso. Essere preparati ad affrontare un discorso significa, soprattutto, sapere cosa e come dire qualcosa, far valere una posizione differente rispetto a quella del comune cittadino nell’organigramma sociale non ti può rendere immune da esternazioni, soprattutto quando le cose vanno malissimo e sembra che dovrebbero andare peggio. D’altra parte l’attacco sulla persona è fine a se stesso e limitante, senza alcuna possibilità di replica logica quindi da censurare.
Ergo?
2021-01-14 19:11:59
Benvenuto nel mondo dell'internet, personalmente penso sia stato sempre così. Abbiamo uno strumento ma non sappiamo usarlo tutti. Internet ci offre la possibilità di esprimerci e darci uno spazio virtuale a propria misura, concetto rafforzato dai social. Di conseguenza ci sentiamo liberi di scrivere tutto a ruota libera, con una falsa percezione di solitudine (siamo dietro ad uno schermo) senza nessuna persona vera davanti che ci accende il filtro che normalmente useremmo. Questo non accende nemmeno la miccia del confronto, perchè comunque sei solo tu ed un computer. Il nostro cervello non è sufficientemente evoluto su questo, ci si arriva con l'intelligenza/educazione all'uso etico di internet.

In questo modo sfoghiamo dei pensieri che normalmente non esprimeremmo o ci freniamo che comunque fanno parte della natura umana, quindi rabbia, odio e attacco.

Il documentario su netflix "The social dilemma" spiega molto bene questo passaggio, parlando poi di un qualcosa più ampio.
2021-01-14 19:20:02
Da qui tutto male, infatti sono stati accusati di poter/voler decidere commenti in linea o meno con direttive più o meno specifiche, allineandosi a quelle scelte dove chi conta di più può dire (o non far dire) di più.

Non ho capito come la pensi tu.
2021-01-14 23:38:20
Ieri avevo messo il link

Non ho ancora letto il resto ma e' chiaro che e' una cazzata
2021-01-14 23:44:29
Benvenuto nel mondo dell'internet, personalmente penso sia stato sempre così. Abbiamo uno strumento ma non sappiamo usarlo tutti. Internet ci offre la possibilità di esprimerci e darci uno spazio virtuale a propria misura, concetto rafforzato dai social. Di conseguenza ci sentiamo liberi di scrivere tutto a ruota libera, con una falsa percezione di solitudine (siamo dietro ad uno schermo) senza nessuna persona vera davanti che ci accende il filtro che normalmente useremmo. Questo non accende nemmeno la miccia del confronto, perchè comunque sei solo tu ed un computer. Il nostro cervello non è sufficientemente evoluto su questo, ci si arriva con l'intelligenza/educazione all'uso etico di internet.

In questo modo sfoghiamo dei pensieri che normalmente non esprimeremmo o ci freniamo che comunque fanno parte della natura umana, quindi rabbia, odio e attacco.

Il documentario su Netflix "The social dilemma" spiega molto bene questo passaggio, parlando poi di un qualcosa più ampio.



+1
2021-01-15 07:27:29
Dal mio punto di vista l’errore è stato pubblicare quella intervista, (come vi ho sempre spiegato la libertà di stampa vera non esiste in nessuna parte del mondo) questo perché apriva il varco a scelte secondo me tutt’altro che semplici da attuare visto il periodo, in secondo luogo - e qui tiro in ballo la redazione e l’editore - dare ad un contenuto la forma di censura diretta rappresenta un ossimoro per un organo di informazione.
2021-01-15 10:35:07
un po' lunghetto :P ma lo trovo interessante e IT
non cito l'autore per non condizionarvi

Uno degli ultimi giorni del 2014 mi telefonò uno dei responsabili del sito di un grande quotidiano. Voleva dirmi che mi vedeva spesso arrabbiato con le cose che pubblicavano e chiedermi come mai ce l’avessi con loro. Gli spiegai che non ero arrabbiato e che volendola proprio vedere sul piano dei miei piccoli sentimenti, fino a che scrivevano cose sbagliate o inventate, io avevo da lavorare e raccogliere attenzioni e consensi: scrivendole giuste e correggendo. Gli dissi anche che mi sembrava da parte sua un po’ fuorviante e autoassolutorio rispondere ai miei frequenti appunti – sulle inaccuratezze ed errori del suo e di altri giornali, di cui mi capitava spesso di scrivere – attribuendoli a miei personali capricci e risentimenti nei confronti di qualcuno: è uno dei più comuni inganni dialettici attaccare il messaggero invece del messaggio, e se mi aveva chiamato per raccontarsela, tanti saluti. Il mio collega spostò allora rapidamente la questione sulla «mancanza di rispetto» da parte mia e sull’«assenza di dolo» da parte del suo giornale, nelle precedenti occasioni in cui avevo segnalato la falsità di titoli e notizie che quel sito e altri avevano pubblicato: «Tutti possono sbagliare, tu non sbagli mai?».


«Eccome» risposi, trattenendo quanto potevo un tono irritante, «ma cerco di stare attento.» Il punto non sono gli errori, che capitano: è che se non ci stai attento capitano più spesso. E se invece di correggerli, capire dove hai sbagliato, imparare, ed evitare di rifarlo, chiami chi te lo ha segnalato, per lamentarti, è difficile che tu poi ne faccia meno, di errori.

Non si convinse granché, e mi propose di segnarmi il suo numero di telefono per chiamarlo se avessero pubblicato altre cose che ritenevo inesatte, piuttosto che scriverne in giro. Io gli spiegai che no, non pensavo che lo avrei chiamato per avvisarli io degli sbagli che facevano, e dopo diversi minuti di reciproche obiezioni anche piuttosto animate ci lasciammo augurandoci buon anno, dopo che mi ebbe accusato diverse volte di voler essere «migliore di tutti».

La telefonata fu per me molto interessante perché mi fece riflettere sul diverso approccio che si può avere nei confronti di questa attività di diffondere delle informazioni che chiamiamo giornalismo. Non la chiamo neanche professione perché sono molto d’accordo con Jeff Jarvis – giornalista americano ed esperto di comunicazione contemporanea – quando spiega che il giornalismo è un servizio e i giornalisti non esistono: «Qualunque cosa svolga efficacemente il compito di creare comunità più informate – e quindi meglio organizzate – è giornalismo». E oggi più che mai – attraverso la redistribuzione e condivisione online di contenuti e informazioni – questo compito è svolto in misure e modi diversi da tantissimi di noi. Ma nell’insistere tanto sul «rispetto per il lavoro» e sull’«assenza di dolo», il mio telefonatore aveva mostrato di ritenere che qualunque lavoro meriti «rispetto» a prescindere: nel senso che non vada criticato o non ne vada valutata la qualità. E anche ammettendo fosse vera la pretesa «assenza di dolo» – dolo che è difficile distinguere dalla deliberata e ripetuta trascuratezza – riteneva evidentemente che in un lavoro conti di più l’impegno che gli è stato dedicato della bontà del risultato. Se facessimo entrambi un’altra professione – che so, il pescivendolo – immagino che mi venderebbe un branzino spacciandolo per salmone e riterrebbe scorretto che io glielo facessi notare perché «tutti possono sbagliare».

Io invece penso che – specularmente a quello che dice Jarvis – esista un’attività che rende le comunità meno informate e peggio organizzate, le fa funzionare male e le peggiora: non so se questa attività possa avere un nome, ma di certo quel nome non è giornalismo eppure riempie le pagine dei nostri giornali e dei nostri siti di news, e i minuti dei telegiornali. E descrive una realtà – dell’Italia, del mondo, di questo tempo – che è in cospicua misura falsa e distante da quello che sono davvero l’Italia, il mondo, questo tempo, e che però diventa la nostra idea della realtà: assorbiamo ogni giorno una dieta caotica di informazioni in cui falso e vero sono confusi e indistinguibili, e poco sforzo è impiegato nel farceli distinguere. E siamo terribilmente vulnerabili a questa disinformazione, persino i più scettici e diffidenti. Perché le cose dette e scritte hanno sempre una forza, come spiegò bene il filologo e studioso del linguaggio tedesco Victor Klemperer nel suo La lingua del Terzo Reich.

Quando ero assistente a Napoli ho sentito dire innumerevoli volte che questo o quel giornale «è pagato», che mente per i suoi clienti; e il giorno dopo le stesse persone che lo avevano sostenuto si facevano completamente convincere da qualche notizia palesemente falsa sugli stessi giornali. Perché era stampata, e perché ci credevano anche gli altri […]. E so anche che c’è qualcosa della gente comune nell’anima di qualunque intellettuale e che tutta la mia consapevolezza sul fatto che mi stanno mentendo, e la mia attenzione critica, non servono a niente quando si arriva al dunque: a un dato momento la bugia stampata avrà la meglio su di me, quando arriverà da ogni lato e sarà messa in discussione sempre meno, e infine da nessuno.

La bugia stampata ha la meglio su di noi tutti i giorni, e nessuno ha gli strumenti per respingerla tutti i giorni: individuiamo le bugie quando riguardano cose che conosciamo o di cui abbiamo esperienza, e questo ci fa venire dei dubbi su tutto il resto, ma va’ a sapere. Spesso, nei convegni sul futuro del giornalismo e simili, qualcuno chiede come orientarsi nell’affollamento quotidiano di informazioni che riceviamo, come distinguere il falso dal vero. Io non credo che ci si possa riuscire in maniera soddisfacente: veniamo da epoche in cui eravamo abituati a pensare che quello che i media ci raccontavano fosse la realtà. Non è mai stato proprio vero, ma gli spazi più limitati che aveva l’informazione permettevano di illudersi che lo fosse: senza internet erano più rari gli sbugiardamenti e le contraddizioni, meno frequenti le ricostruzioni alternative, tanti gli spazi di ignoranza a cui eravamo abituati e disposti.

Molti anni fa, nel 1989, ci fu un caso diplomatico-giornalistico internazionale che coinvolse un grande quotidiano italiano e fu illuminante per descrivere un’idea e una pratica di giornalismo. L’articolo di un inviato italiano a Washington descrisse una visita americana di Boris Eltsin – allora oppositore politico del presidente sovietico Mikhail Gorbaciov – consegnando ai lettori l’immagine di uno Eltsin eccitato ubriacone che arriva in America e passa tutto il tempo a spendere soldi e bere, con estesa descrizione di dettagli e aneddoti ma pochissime fonti indicate. Il quotidiano russo governativo «Pravda» riprodusse tal quale l’articolo, che fu letto e commentato moltissimo in Russia: eravamo alla vigilia della caduta del Muro di Berlino e le perseguitate opposizioni russe stavano finalmente guadagnando piccoli spazi di libertà e democrazia.

Ci furono tantissime proteste, quindi, per una narrazione di quella che invece a molti era sembrata un’importante occasione di comunicazione degli Stati Uniti e dell’Occidente con quelle minoranze politiche: e soprattutto, alle verifiche nei fatti, diverse cose dette in quell’articolo furono smentite e contraddette. Sia il quotidiano italiano sia quello russo furono costretti a reticenti spiegazioni e scuse, molto poco convincenti e dandosi la colpa l’un l’altro.

Ma la parte interessante è la valutazione di quello che era successo che fu data da parte del giornalismo americano e dei suoi standard di accuratezza e verifica con le fonti. Il «Chicago Tribune» fu tra gli altri giornali che intervennero a criticare l’articolo e a smentirne gli elementi – l’autore, venne fuori, non aveva personalmente visto le cose che raccontava, né Eltsin – e definì così l’impostazione e la scrittura di quel pezzo, che negli ultimi vent’anni sono stati l’impostazione e la scrittura di gran parte del giornalismo italiano: «Era un gran pezzo, divertente da leggere. Aveva solo un inconveniente. Non era del tutto vero».

In queste pochissime parole venne allora spiegato un approccio che orienta tuttora – e oggi più che mai – tantissime scelte delle redazioni italiane: la verità non è una priorità, quello che conta è «la storia», il racconto, il «gran pezzo», divertente da leggere. Dove divertente è diventato più in generale attraente, inquietante, allarmante, emozionante: ciò che «diverte» letteralmente dalle nostre emozioni normali. Giornalismo wow, che emozioni. Il «Chicago Tribune» lo aveva capito e spiegato nel 1989, a proposito di quell’articolo («L’autore non si aspettava che l’articolo fosse giudicato come un articolo da prima pagina del “New York Times”, in cui ci si aspetta che ogni fatto sia un fatto.» E in effetti il «New York Times» pubblicò un suo articolo che consultando varie fonti contraddisse punto su punto la ricostruzione «italiana»).

Ma soprattutto, il «Chicago Tribune» aveva spiegato come questo giornalismo fatto di «stare in albergo davanti ai telegiornali e ritagliare gli articoli dei quotidiani» stesse entrando in crisi per via delle innovazioni tecnologiche (che allora erano ancora timidissime, peraltro).

L’autore dell’articolo è stato fregato dalla rivoluzione tecnologica.
Se una citazione è troppo grigia, rendila più piccante: chi vuoi che se ne accorga? Se solo poche persone sono morte in un massacro nella giungla, chi protesterà se le fai diventare decine? Ma fai centinaia. Adesso invece tantissime persone sanno. Se un inviato europeo copia un paragrafo dal «Washington Post», i lettori che vedono l’originale sull’edizione europea dello «Herald Tribune» se ne accorgono. Politici e amministratori intervistati negli Stati Uniti dal «Times» di Londra si fanno mandare l’articolo per fax attraverso l’oceano, pochi minuti dopo che è uscito. I satelliti trasmettono gli articoli in un nanosecondo. Il digitale ci mette un minuto per giornali interi.
Il mondo si è rimpicciolito, e qualcuno ci è rimasto in trappola.

Il mondo si è rimpicciolito, e va smentita la leggenda autoassolutoria fatta circolare da molti giornalisti delle testate tradizionali per cui internet sarebbe responsabile di un peggioramento dell’accuratezza dell’informazione: internet ha distrutto l’oligopolio dell’informazione e ci ha permesso di accorgerci che in tanti casi sotto il racconto del mondo che riceviamo non c’è niente. Prima vedevamo l’articolo e il suo contenuto, ora siamo in grado di vedere rapidamente come è stato scritto, quali sono le sue fonti e quali altre cose si dicono e scrivono sullo stesso fatto. L’informazione probabilmente non è diventata meno accurata, è solo che prima non ce ne accorgevamo: perché nel 1989 ci volevano gli articoli di altri giornalisti e inviati a Washington per far sapere che una ricostruzione era infondata.

Ma certo, internet ha moltiplicato per cento o per mille le informazioni che riceviamo ogni giorno, e di conseguenza anche le informazioni false, le bufale, le sciocchezze. E abituati come eravamo all’ingannevole ma confortevole idea che prima non ci fossero, fatichiamo ad adattarci alla nuova consapevolezza e ci chiediamo come sarà possibile orientarsi e distinguere il falso dal vero.

Io penso che in buona misura non sarà possibile, salvo farla diventare per ognuno un’attività quasi professionale e impensabile. Ritengo che dovremo abituarci all’idea che la buona informazione sia un servizio carente e parziale. Noi viviamo in società in cui, per nostra fortuna, siamo stati viziati a pensare che l’esistenza e qualità di alcuni servizi sia garantita, con diversi gradi di soddisfazione. Dove se stai male ci sono medici e ospedali a cui puoi accedere, se sei vittima di un’ingiustizia ci sono polizie e leggi e tribunali che ti tutelano, dove i tuoi figli hanno scuole che li preparano al resto della loro vita, eccetera. E dove ci sono mezzi di informazione che ci fanno capire le cose, e rendono le nostre società migliori perché meglio informate.

Ma ci sono luoghi del mondo in cui questi servizi sono invece carenti o assenti, estranei alla vita quotidiana delle persone. Dove se ti ammali anche di una cosa curabile, nessuno ti cura e muori. Dove un sopruso vince e non puoi chiedere giustizia a nessuno. Dove nasci analfabeta e cresci analfabeta. E le persone sono avvezze a queste carenze e vivono prendendone le misure. Evitando i posti in cui ti possono picchiare e derubare, imparando soluzioni dilettantesche per curarsi, condividendo con i vicini insegnamenti e lezioni utili. Arrangiandosi.

Io credo che – fatte le ovvie e dovute proporzioni – questo sia lo scenario in cui dobbiamo disporci a vivere rispetto al servizio dell’informazione: imparare a cavarcela, muovendoci con diffidenza e sapendo che dovremo arrangiarci, se vogliamo capire cosa sia vero e cosa sia falso in un mondo in cui c’è un sacco di falso, ben stampato. Divertente.
2021-01-15 11:19:48
L'impressione è che parliamo di un caso in cui i cittadini possono trarre le conseguenze che vogliono dalla vicenda.
Il prefetto sarà simpatico/antipatico a ciascuno, il giornale semnrerà ad alcuni corretto ad altri di parte.

Come mia preferenza trovo che bisogna credere e fidarsi della capacità di giudizio delle persone. Censurare le opinioni con la scusa che possono procurare danno è miope.
Ricordatevi che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. L'informazione ci bombarda di eccezioni, facendoci credere che siano la normalità, ma non va così. I commenti sui social o sui forum non rappresentano la larga maggioranza, che legge e non commenta.
2021-01-15 11:26:48
Grazie, concordo su ogni parola, pur non sapendo chi sia l'autore?
chi è?
2021-01-15 11:54:37
Sì ma la domanda era sul tuo pdv circa la gestione di questi commenti.

dare ad un contenuto la forma di censura diretta rappresenta un ossimoro per un organo di informazione

Se la moderazione la fai sulla forma non capisco cosa tu stia censurando: la libertà di non dare un contributo?

Ti faccio un esempio: i commenti troppo brevi a volte vengono scartati in automatico. Altro non è se non un incentivo a dare un reale contributo alla discussione, senza banalizzare con emoticon e battute prive di sostanza.
2021-01-15 11:59:29
Ne discutevamo altrove, ma il titolo di questo 3d è più appropriato:
queste le motivazioni ufficiali del ban di Trump da Twitter

Trump è stato bannato per sempre per questi due post?

On January 8, 2021, President Donald J. Trump Tweeted:

“The 75,000,000 great American Patriots who voted for me, AMERICA FIRST, and MAKE AMERICA GREAT AGAIN, will have a GIANT VOICE long into the future. They will not be disrespected or treated unfairly in any way, shape or form!!!”

Shortly thereafter, the President Tweeted:

“To all of those who have asked, I will not be going to the Inauguration on January 20th.”
2021-01-15 12:13:32
articolo da sì e no.
racconta di molte cose che storicamente capitano (da millenni) sul concetto di informazione e diffusione della stessa, senza tirare in ballo Eltsin di minchiate d'assalto (oggi mentre ero dal dentista ascoltavo nello studio - credo radio deejay - dove raccontavano che la macchina da golf di Trump era più veloce delle altre perchè in questo modo parrucchino poteva arrivare più velocemente sul percorso e barare per battere anche i campioni. Evidentemente questi non hanno mai giocato a golf, una macchina più o meno veloce non cambia nulla per poter barare dato che anche l'avversario vede dove finisce mediamente la tua palla e dato che tocca un tiro a testa...la macchina potrebbe essere veloce per recuperare tempo nei trasferimenti non colpi....) racconta di come la manipolazione possa essere un processo con svariate finalità ma, secondo me, avverte che l'informazione sarà una questione di sopravvivenza in futuro. Andazzo molto social e pessimo direi

Il mondo si è rimpicciolito, e va smentita la leggenda autoassolutoria fatta circolare da molti giornalisti delle testate tradizionali per cui internet sarebbe responsabile di un peggioramento dell’accuratezza dell’informazione: internet ha distrutto l’oligopolio dell’informazione e ci ha permesso di accorgerci che in tanti casi sotto il racconto del mondo che riceviamo non c’è niente. Prima vedevamo l’articolo e il suo contenuto, ora siamo in grado di vedere rapidamente come è stato scritto, quali sono le sue fonti e quali altre cose si dicono e scrivono sullo stesso fatto. L’informazione probabilmente non è diventata meno accurata, è solo che prima non ce ne accorgevamo: perché nel 1989 ci volevano gli articoli di altri giornalisti e inviati a Washington per far sapere che una ricostruzione era infondata.

Facciamo a capirci, internet è uno strumento non una soluzione. Il livello medio di preparazione di chi si approccia al giornalismo "online" è spaventosamente basso, val bene litigare con un collega all'inizio del resoconto per quello che viene scritto di sbagliato ma a questo punto andrebbe chiarito il nesso tra ciò che siamo e ciò che leggiamo.
Oggi vince la comunicazione, non il giornalismo, sono due cose profondamente differenti ma trattate allo stesso modo grazie ad un pubblico mediamente più limitato nella analisi critica.
le scuole e le redazioni spiegano la comunicazione ovvero il fatto di ricevere consensi, ma non spiegano il giornalismo ovvero il fatto di creare dissenso lecito e naturale. Su questo fatto la rete ha avuto la capacità di abbassare il livello medio degli scrivani a profili che 30 anni fa non venivano neanche considerati per lavorare dentro una redazione, questo è il problema di internet, strumento che serve a comunicare non a capire. Per comunicare basta essere un cacioricottaro che fa il cretino o che scrive minchiate, per scrivere e far capire serve un giornalista.
2021-01-15 14:27:39
senza tirare in ballo Eltsin di minchiate d'assalto

trovo pertinente l'esempio eclatante di un fatto importante come esempio di ciò che l'autore va sostenendo; se vuoi parlare male del tizio x lo fai anche inventando, contando sul fatto che i tuoi lettori daranno per buono quanto scritto, dato il potere della carta stampata e dell'informazione

Facciamo a capirci, internet è uno strumento non una soluzione....


non credo volesse sottolineare questo, quanto l'impegno e la difficoltà che bisogna affrontare per farsi un'idea basata su fatti reali e su un informazione onesta, poi certo ognuno la declina secondo le proprie idee e trae le conclusioni secondo la propria sensibilità, ma non è corretto delegare ai lettori la responsabilità di verificare che quanto dici sia vero. Oggi, dice l'autore smascherare le informazioni fasulle incomplete o romanzate è più semplice con internet ma....
Io credo che – fatte le ovvie e dovute proporzioni – questo sia lo scenario in cui dobbiamo disporci a vivere rispetto al servizio dell’informazione: imparare a cavarcela, muovendoci con diffidenza e sapendo che dovremo arrangiarci, se vogliamo capire cosa sia vero e cosa sia falso in un mondo in cui c’è un sacco di falso, ben stampato. Divertente.
non è una bella cosa, ma io mi trovo in questa situazione
2021-01-15 17:28:08
anche la scrittura è uno "strumento" epperò prima che la inventassero era preistoria e dopo è diventata storia.

Voglio dire che le scoperte e le innovazioni cambiano il mondo (ammazza che ovvietà che ho scritto!).
La conclusione non è che succede qualcosa di completamente nuovo e mai accaduto, ma che si rimescolano gli ingredienti e il risultato finale non è più lo stesso.

Lo stesso vale con internet e coi social media, cambiano lo scenario, la velocità, la partecipazione mentre restano le stesse pulsioni, interessi, capacità cognitive (forse..).

In sostanza anche io mi trovo con la frase che riporta 2Tone:
Io credo che – fatte le ovvie e dovute proporzioni – questo sia lo scenario in cui dobbiamo disporci a vivere rispetto al servizio dell’informazione: imparare a cavarcela, muovendoci con diffidenza e sapendo che dovremo arrangiarci, se vogliamo capire cosa sia vero e cosa sia falso in un mondo in cui c’è un sacco di falso, ben stampato. Divertente.

penso che tutto questo è sempre accaduto (faccio sempre gli stessi esempi ma pensate all'Apologo di Menenio Agrippa, oppure pensate al ruolo delle fake news nella conquista della gallia da parte di Cesare... oppure parliamo della santità dei papi nel medioevo?) ma ora accade in modo diverso.

Giorni fa scrivevo (e non mi ha seguito nessuno temo) che la verità non esiste, che siamo alla post-verità etc... Avevo postato un articolo molto interessante, vediamo se lo ritrovo..
2021-01-15 18:18:42
Io penso che in buona misura non sarà possibile, salvo farla diventare per ognuno un’attività quasi professionale e impensabile. Ritengo che dovremo abituarci all’idea che la buona informazione sia un servizio carente e parziale. Noi viviamo in società in cui, per nostra fortuna, siamo stati viziati a pensare che l’esistenza e qualità di alcuni servizi sia garantita, con diversi gradi di soddisfazione. Dove se stai male ci sono medici e ospedali a cui puoi accedere, se sei vittima di un’ingiustizia ci sono polizie e leggi e tribunali che ti tutelano, dove i tuoi figli hanno scuole che li preparano al resto della loro vita, eccetera. E dove ci sono mezzi di informazione che ci fanno capire le cose, e rendono le nostre società migliori perché meglio informate.

Ma ci sono luoghi del mondo in cui questi servizi sono invece carenti o assenti, estranei alla vita quotidiana delle persone. Dove se ti ammali anche di una cosa curabile, nessuno ti cura e muori. Dove un sopruso vince e non puoi chiedere giustizia a nessuno. Dove nasci analfabeta e cresci analfabeta. E le persone sono avvezze a queste carenze e vivono prendendone le misure. Evitando i posti in cui ti possono picchiare e derubare, imparando soluzioni dilettantesche per curarsi, condividendo con i vicini insegnamenti e lezioni utili. Arrangiandosi.


Verissimo, è una delle prime riflessioni che faccio quando racconto di esperienze di vita in zone del mondo molto meno fortunate della nostra. In sintesi impari molto in fretta ad accettare ciò che ti succede e ci si stupisce (almeno all'inizio) di quanto la società ci abbia disabituato all'assenza di risposte...

Detto questo direi che la discussione ha virato su giornalismo e reale informazione, tema interessante, ma se non sbaglio si parlava di scegliere se pubblicare o meno. Credo che banalmente il giornalista formato negli anni '80 e '90 si senta molto poco a proprio agio in un'epoca nella quale non c'è filtro se non quello di chi legge, con abbondanza di canali e soprattutto tali per cui tutti possono pubblicare e arrivare alla platea: quel senso di onnipotenza dovuto al fatto di essere l'unico tramite, di decidere se e come riportare i fatti e le risposte, viene meno. Conosco professionisti che si sono trovati e si trovano in grossa difficoltà ad accettarlo. Al di là di aneddoti e vicende personali che ovviamente non riporto, mi vengono in mente film quali Tutti gli uomini del presidente (o più recentemente The post), che ovviamente più in grande raccontano questo smisurato potere di giornali e giornalisti sulla vita politica. Questo non poteva non dare alla testa prima e provocare una sorta di crisi di identità dopo.
(edited)
2021-01-15 18:21:12
. Io credo che – fatte le ovvie e dovute proporzioni – questo sia lo scenario in cui dobbiamo disporci a vivere rispetto al servizio dell’informazione: imparare a cavarcela, muovendoci con diffidenza e sapendo che dovremo arrangiarci, se vogliamo capire cosa sia vero e cosa sia falso in un mondo in cui c’è un sacco di falso, ben stampato. Divertente.


Verissimo ma torno sul mio concetto iniziale, la preparazione di chi legge e di chi dovrebbe scrivere. Quando gli articoli sono scritto da peracottari via web che fungono da comunicatori avrai lettori che vivono di comunicazione non di informazione